Pastorale americana (Philip Roth, 1997)

PastoraleParadiso ricordato

Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l’eccezionalità del viso. Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che assomigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome Seymour Irving Levov. (Einaudi, traduzione V. Mantovani)

[Paradise Remembered

The Swede. During the war years, when I was still a grade school boy, this was a magical name in our Newark neighborhood, even to adults just a generation removed from the city’s old Prince Street ghetto and not yet so flawlessly Americanized as to be bowled over by the prowess of a high school athlete. The name was magical; so was the anomalous face. Of the few fair-complexioned Jewish students in our preponderantly Jewish public high school, none possessed anything remotely like the steep-jawed, insentient Viking mask of this blue-eyed blond born into our tribe as Seymour Irving Levov. American Pastoral 1997]

Un nome, anzi un soprannome, apre la Pastorale americana di Philip Roth. Occupa la prima frase, da solo, promessa di una presenza piena, assoluta, incombente. Sembra non ci sia bisogno di altro. Tutto è detto.

Un io segue a ruota; è un io che si presenta con un ricordo di ragazzino che fa cogliere la forza catalizzatrice di quel soprannome nel quartiere di Newark in cui vive la comunità ebrea a cui il ragazzino appartiene. E’ un ricordo che riguarda “gli anni della guerra” e cioè la generazione successiva a quella del vecchio ghetto. In un paio di righe emerge uno spaccato di storia americana inscritto nella storia urbana di Newark e negli spostamenti interni da quartiere a quartiere: da un lato il vecchio ghetto, che suggerisce l’isolamento di una comunità chiusa, dall’altro la piena assimilazione, la perfetta americanizzazione non ancora raggiunta in quel momento storico, ma già intuibile e conosciuta da quell’io che ricorda da un presente distante da quegli anni. Si tratta di un presente – quello della narrazione – non ancora specificato per noi, ma già contenuto nei tempi verbali e nel boy che immaginiamo, adesso, narratore adulto che guarda indietro e pensa a quel periodo come ad un paradiso, ricordato, appunto.

Il ricordo riguarda un’infatuazione comunitaria per lo Svedese – la magia del suo nome è ribadita in queste poche righe per ben due volte a sottolineare una eccezionalità evidente a tutti perché legata a tratti fisici unici. Seymour Irving Levov è un ebreo – il vero nome del protagonista che chiude il paragrafo non lascia alcun dubbio al riguardo – ma non lo sembra. Questo vichingo biondo (non “biondino” per carità!) fa sognare ad una intera comunità il sogno della possibile assimilazione, della diluizione di quel tratto etnico di appartenenza ad una comunità, ad una “tribù”, che in quel preciso momento storico pagava con la vita la sua identità non ariana.

La pastorale americana è tutta qui: lo Svedese, il cui nome e soprannome contengono e condensano una profonda contraddizione, e un io che ricorda sullo sfondo della storia americana. Resta da vedere come questo io narrante qui ancora senza nome metterà al centro colui che le prime parole ci hanno consegnato come il protagonista e resta da vedere che parte giocherà la storia. La pastorale americana è tutta qui ed è tutta da venire.

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Il bordo vertiginoso delle cose (Gianrico Carofiglio, Rizzoli 2013)

CarofiglioPreludio

Come ogni mattina entri nel solito bar per fare colazione. Da quando vivi solo – da parecchio, ormai – non ti riesce di fare colazione a casa. La cena, a volte il pranzo, sì. Chissà perché, invece, la colazione no. Così ogni mattina vai al bar. A volte resti in piedi al bancone, altre volte ti siedi a un tavolino e te la prendi più comoda. Non c’è una regola, dipende da come ti senti – come non ti senti -, dal tempo, dagli impegni o dalla loro assenza, dal caso. Non lo sai perché a volte ti siedi e a volte no.

Oggi ti siedi, e sul tavolino è appoggiato un quotidiano. Così, aspettando il caffè e la brioche, sfogli distrattamente le pagine, leggendo i titoli.

 

Preludio, ovvero, premessa, antefatto: quello che viene prima di tutto e che ci permette di capire quello che segue.

Varchiamo la soglia quindi, fiduciosi che ci verrà data – subito – una chiave interpretativa, una pista.

Leggiamo dunque, ed eccoci ad affrontare immediatamente una stranezza: “Come ogni mattina entri …” Ci capita molto raramente di leggere libri in seconda persona. Anche qui, in questo blog, gli incipit che abbiamo affrontato fino ad adesso presentavano una prima persona (“Come ogni mattina entro”) o una terza persona (“Come ogni mattina entra”). La stranezza – come ogni stranezza – ci spiazza e ci costringe a mettere a fuoco, a cercare una categoria di riferimento. Si tratta di un gesto automatico a livello cognitivo che si chiama tecnicamente “naturalizzazione”: naturalizzare significa immaginare un contesto, una situazione naturale, appunto, che faccia parte della nostra ordinaria esperienza di vita a cui ricondurre quello che leggiamo.

Come naturalizziamo questa seconda persona? Ad un livello molto immediato e di superficie possiamo semplicemente dire che intuiamo che quel tu, presuppone un io che lo dice. La presupposizione di una persona, o, se vogliamo tenerci larghi, un’entità che racconta è il primo – più immediato – gesto interpretativo. Un gesto – peraltro – che non riguarda solamente i contesti in seconda persona. Detto questo non abbiamo purtroppo fatto molta strada: come facciamo a sapere chi parla? Difficile rispondere, ma qualcosa possiamo dire. Il primo verbo che il nostro fantomatico narratore usa è un verbo descrittivo: entrare. L’entrare in un bar è un’azione visibile a chiunque – per esempio, un ipotetico avventore del bar potrebbe vedere il protagonista entrare, appunto, ogni mattina. Ma il verbo successivo – vivere (da solo) – non è un’azione, cioè non è qualcosa di visibile per il nostro avventore. La specificazione che il protagonista vive da solo “da parecchio” conferma che colui che parla sa di più di quello che si vede. Il terzo verbo “non ti riesce” segnala una conoscenza ben più profonda – in fin dei conti sapere che una persona vive da sola da parecchio è una notizia, un pettegolezzo, che non richiede una particolare intimità. “Non ti riesce,”  invece, esplicita che colui che si rivolge al protagonista con il tu, ne conosce le emozioni, i pensieri. Le specificazioni “dipende da come ti senti” “non lo sai” rafforzano il concetto. Non abbiamo più dubbi, insomma, che la persona che dice “tu” ha un rapporto molto, molto intimo con il protagonista. Anzi, a ben guardare, l’impressione è che costui sappia troppe cose.

Traspare un altro dato: colui che parla è pignolo con le parole – le misura, le specifica in maniera che sconfina con la pedanteria (“dagli impegni o dalla loro assenza”). Che mestiere fa uno che è così attento a dire la parola giusta?

Il tutto ci è offerto al presente: il tempo che ci illude che sia possibile la presa diretta con le cose che succedono nel momento in cui succedono. Questo oggi, quel quotidiano e la sua lettura distratta si stagliano netti, in rilievo sullo sfondo di tutte le colazioni in questo bar. Contengono e intonano – siamo sicuri – le pagine (al presente? al passato?) che seguiranno.

L’autore sarà ospite di Ca’ Foscari alle 17 di mercoledì 20 novembre; e al centro direzionale di Veneto Banca, giovedì 21 novembre alle 18. 

In entrambi i casi converserà con me. 

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La controvita (Philip Roth, 1986)

Capitolo primo – Basilea978880617896GRA

Da quando il medico di famiglia, durante un’ordinaria visita di controllo, aveva scoperto qualcosa di anormale nel tracciato del suo elettrocardiogramma, e lui in ventiquattr’ore si era sottoposto alla coronarografia che aveva rivelato l’entità del male, Henry era stato curato con successo grazie a certi farmaci che gli avevano permesso di lavorare e continuare a fare esattamente la vita di prima. Non lamentava nemmeno il dolore al petto e l’affanno che il suo medico si sarebbe tranquillamente aspettato di trovare in un paziente con un’ostruzione arteriosa così avanzata. Henry non aveva avuto alcun sintomo prima della visita che rivelò l’anomalia, e la situazione non cambiò durante l’anno che precedette la decisione di farsi operare: niente sintomi tranne un terribile effetto collaterale prodotto dalle stesse medicine che stabilizzavano la malattia e riducevano in modo sostanziale il rischio dei un attacco cardiaco.

(Einaudi, 2010. Traduzione di Vincenzo Mantovani)

[The Counterlife – Chapter One – Basel

Ever since the family doctor, during a routine checkup, discovered an abnormality on his EKG and he went in overnight for the coronary catheterization that revealed the dimensions of the disease, Henry’s condition had been successfully treated with drugs, enabling him to work and to carry on his life at home exactly as before. He didn’t even complain of chest pain or of the breathlessness that his doctor might well have expected to find in a patient with advanced arterial obstruction. He was asymptomati before the routine examination that revealed the abnormality and remained that way during the year before he decided on surgery – without symptoms but for a single terrible side effect from the very medication that stabilized his condition and substantially reduced the risk of a heart attack. The Counterlife, 1986]

Da un anno Henry è sotto farmaci: un visita di controllo – ordinaria – ha evidenziato una ostruzione arteriosa grave che ne richiede l’assunzione per scongiurare il rischio di un attacco cardiaco.

Asintomatico prima della visita di controllo, Henry continua a non ricevere dal suo corpo alcun segno che gli ricordi la gravità della situazione – dolore al petto, affanno – nulla. E‘ proprio l’assenza di sintomi che rende l’effetto collaterale prodotto dalle medicine particolarmente insopportabile, addirittura terribile. Il percepito è che i farmaci non gli hanno ridato la vita che gli interessa vivere, ma gliel’hanno tolta. Il fatto è che questi farmaci non gli permettono in realtà di “continuare a fare esattamente la vita di prima.” Il paragrafo successivo esplicita di cosa si tratta: un’interferenza con l’attività sessuale di Henry. “Henry non si svegliava più con la solita erezione mattutina e non era abbastanza potente per avere rapporti sessuali, nè con la moglie, Carol, nè con la propria assistente, Wendy.”

Ecco qui, presto descritto, il territorio rothiano che apre questo romanzo cruciale della produzione del grande scrittore di Newark. Potremmo dire che questo primo paragrafo contiene sia la cosiddetta esposizione (la presentazione di Henry e la sua situazione) sia una tensione o instabilità che dir si voglia (il “terribile” effetto collaterale). Esposizione e tensione stabiliscono un’aspettativa nel lettore perchè suggeriscono implicitamente una direzione, in questo caso la gestione dell’inaccettabile effetto collaterale. In fin dei conti siamo nelle mani di un narratore che dimostra di sapere quello di cui parla e racconta di Henry con il tempo passato (distante dal presente del suo raccontare).

Siamo a posto dunque? Proprio no.

Rimane (almeno) una cosa su cui è necessario soffermarci – forse la più importante. L’intero primo paragrafo è in corsivo. Il corsivo segnala una differenza, uno scarto rispetto ad una normalità convenzionalmente rappresentata dal minuscolo stampato semplice. Non sappiamo quale sia la differenza segnalata (dovremo aspettare pagina 14 per capirlo), ma intanto c’è, ci sfida, ci interroga, ci fa alzare le antenne. La canonicità del contenuto (esposizione più tensione) si infrange sulla stranezza grafica. Un libro che si intitola misteriosamente La controvita comincia con una contromarcia. Possiamo azzardarci ad ipotizzare un collegamento tra il titolo e il corsivo: una vita raccontata in minuscolo stampato e una controvita, cioè una vita alternativa, raccontata in corsivo?

Vi invito a leggere per rispondere a questa domanda che si dimostrerà molto più banale della realtà (e irrealtà) del capolavoro di Roth.

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