Uomo invisibile (Ralph Ellison, 1952)

uomo_invisibilePrologo

Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera, io mi trovo come circondato da specchi deformanti di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me.

(Einaudi. Traduzione: Carlo Fruttero e Luciano Gallino)

[Prologue

I am an invisible man. No, I am not a spook like those who haunted Edgar Allan Poe; nor am I one of your Hollywood-movie ectoplasms. I am a man of substance, of flesh and bone, fiber and liquids – and I might even be said to possess a mind. I am invisible, understand, simply beause people refuse to see me. Like the bodiless heads you see sometimes in circus sideshows, it is as though I have been surrounded by mirrors of hard, distorting glass. When they approach me they see only my surroundings, themselves, or figments of their imagination – indeed, everything and anything except me.]

Prologo – quella porzione di testo che sta sulla soglia e introduce quanto segue fornendo tipicamente delle chiavi di lettura. E la chiave che tutto apre ha comprensibilmente a che fare con la questione che il titolo stesso mette sul tavolo – che cosa si possa intendere per invisibilità, come un uomo possa definirsi invisibile. E’ una prima persona che si attribuisce questa caratteristica e che si presenta ai lettori senza indugi con una situazione esistenziale a dir poco complessa: io=uomo invisibile. La presenza forte della voce che dice “io” e che si assume immediatamente il compito di definirsi (“io sono…”) ci offre un predicato a dire poco problematico. I significati che istintivamente ci vengono in mente pensando all’invisibilità sono tutti negati nelle righe che seguono questa prima – fondativa – definizione: niente spettri alla Edgar Allan Poe e neanche ectoplasmi hollywoodiani. E dunque?

Ecco una seconda definizione (“sono…”) che ci rassicura (carne e ossa, cervello) e al contempo complica la situazione in quanto l’aggettivo invisibile si attaglia con difficoltà alla sostanza palpabile e solida della carne e delle ossa. Nel frattempo al di là delle scivolose questioni definitorie registriamo il piglio sicuro di questa voce che suona autorevole e ben consapevole della nostra presenza e del nostro lavorio mentale (“No, non sono” “capito?”). Si tratta di un narratore che dimostra una certa maestria nel maneggiare le parole (vedi le coppie spettro/ectoplasma, carne,ossa/fibre,umori), e i riferimenti che pescano sia nei classici (Poe) che nella cultura pop (Hollywood); percepiamo anche un tono sottilmente ironico (“si può persino dire che posseggo un cervello”).

Torniamo alla definizione dunque. La questione dell’invisibilità è “semplice”, ci dice il nostro narratore in prima persona, ed è presto detta: “la gente si rifiuta di vedermi”. La situazione paradossale in cui si trova il nostro narratore-protagonista è dunque relazionale – ha a che fare, cioè, con un rifiuto della “gente” di vedere. Non si tratta quindi di una invisibilità assoluta, ontologica, ma di una invisibilità che concerne l’individualità dell’io che ci parla. La “gente”, infatti, non è che non vede niente, ma vede tutto tranne la singolarità del protagonista: nello specifico, “solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia.” Insomma, il protagonista vive come circondato da specchi deformanti che gli rimandano un’immagine di sè distorta da tutto ciò che “la gente” proietta sulla sua persona, un’immagine caratterizzata da tratti sociologicamente determinati (“quello che mi sta intorno”) o psicologicamente definiti (“se stessi”) o inventati (“invenzioni della loro fantasia”).

Ma che situazione è mai questa? Qui sta il problema, la tensione di questo incipit: immaginare questo tipo di situazione esistenziale e calarla in un orizzonte di senso. Dato che stiamo parlando di un classico della letteratura afro-americana è tutto sommato facile fare uno più uno e collocare questa descrizione sull’orizzonte ben noto delle dinamiche della color-line di matrice nord americana. A ben vedere, oltre che facile è anche un modo per scansarsi circa la possibile rilevanza per noi, qui e adesso.

L’esercizio (a volte scomodo e faticoso, ma – spero – stimolante che è al centro di CosìComincia) ci chiede di sganciarci dal contesto, ovvero di non dipendere in maniera assoluta dalle informazioni che possiamo reperire a destra e a manca del testo che lo scrittore ha scritto. Ed ecco allora che una volta accettata la sfida di non risolvere la questione interpretativa ancorandola ad un preciso dato sociologico – gli Stati Uniti degli anni 30-50 del novecento, Uomo invisibile di Ralph Ellison ci pone una domanda scomoda sulle invisibilità del nostro tempo e dei nostri contesti. Ci sono situazioni in cui anche noi ci comportiamo come la “gente” di questo inizio? Quand’è che ci capita ancora di guardare senza vedere?

Pubblicato in Incipit | Lascia un commento

Assalonne, Assalonne! (William Faulkner, 1936)

imgresDa’ un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre—una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero alcove e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento. C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa. (Adelphi, 2001, traduzione di Glauco Cambon)

[One

From a little after two o’clock until almost sundown of the long still hot weary dead September afternoon they sat in what Miss Coldfield still called the office because her father had called it that—a dim hot airless room with the blinds all closed and fastened for forty-three summers because when she was a girl someone had believed that light and moving air carried heat and that dark was always cooler, and which (as the sun shone fuller and fuller on that side of the house) became latticed with yellow slashes full of dust motes which Quentin thought of as being flecks of the dead old dried paint itself blown inward from the scaling blinds as wind might have blown them. There was a wistaria vine blooming for the second time that summer on a wooden trellis before one window, into which sparrows came now and then in random gusts, making a dry vivid dusty sound before going away: and opposite Quentin, Miss Coldfield  in the eternal balck which she had worn for forty-three years now, whether for sister, father, or nothusband none knew, sitting so bolt upright in the straight hard chair that was so tall for her that her legs hung straight and rigid as if she had iron shinbones and ankles, clear of the floor with that air of impotent and static rage like children’s feet, and talking in that grim haggard amazed voice until at last listening would renege and hearing-sense self confound and the long-dead object of her impotent yet indomitable frustration would appear, as though by outraged recapitulation evoked, quiet inattentive and harmless, out of the biding and dreamy and victorious dust. Absalom, Absalom! 1936] 

 

Una riga e siamo già irretiti da una trafila di aggettivi (senza virgole per giunta); un paragrafo e siamo già persi nei dettagli di un pomeriggio, di una stanza, di una lunga conversazione, di due personaggi che si stagliano netti e al contempo sfuggenti, sullo sfondo di un polveroso e soffocante ufficio buio e senz’aria. Lungo paragrafo ad avviare uno dei capolavori della cosiddetta fase maggiore del grande William Faulkner – Assalonne, Assalonne!  Un titolo impervio, opaco nella suo non immediatamente disponibile riferimento ad un personaggio biblico, titolo assolutamente non illuminato da questo primo paragrafo.

Lasciamoci irretire dunque e accettiamo di perderci in questo mare di parole e di specificazioni. La prima riga dice proprio di un tempo lungo – dalle due fin quasi al tramonto di un pomeriggio di fine estate che potrebbe suggerire metaforicamente un tramonto più vasto – di un incontro tra Quentin e Miss Rosa Coldfield che si consuma senza fretta e senza fretta si misura con quello che è e con quello che è stato. E’ proprio il tempo il primo componente ad emergere da questo incipit – il tempo trascorso, descritto dalla specificazione temporale che apre il romanzo, il tempo passato che ancora incombe sul presente e lo definisce: la stanza si chiama studio perché così la chiamava il padre di Miss Rosa e lo studio è chiuso e inchiavardato per una convinzione espressa quarantatré anni prima. Padre o non meglio specificato qualcuno, l’ombra lunga del passato giunge – prescrittiva – fino a Miss Rosa che l’ha fatta sua e a Quentin, giovane invitato, che la subisce.

Rosa è Miss Rosa Coldfield, Quentin è semplicemente Quentin, ad indicare (e suggerire) due generazioni distanti non solo per l’età, ma per una visione del mondo e delle sue regole di appropriatezza sociale. Ed è proprio su Miss Rosa che si concentra la seconda parte di questo primo inaugurale paragrafo: Miss Rosa è presentata come segnata dall’assenza e dalla perdita. Proprio perché eterno il suo lutto ha perso il senso di un segno circostanziale, la perdita di una sorella o del padre o del marito mancato, ed è diventato simbolo di un modo di intendere la vita nella sua totalità. Come il termine “studio” è rimasto cristallizzato per Miss Rosa, così il sentirsi colpita nei suoi affetti è diventato dominante – il nero della morte colora la sua vita, che, forse, non può più dirsi tale. Il riferimento al lutto per un marito mancato (la parola che Faulkner usa nell’originale è un impegnativo neologismo, nothusband) a fianco di lutti, per così dire, più immediatamente comprensibili, aggiunge un ingrediente di mistero all’atmosfera vagamente gotica, decadente che aleggia in queste prime righe contrastata dal glicine che, incurante, fiorisce per la seconda volta.

L’argomento della conversazione è un offeso ricapitolare che affonda le sue radici in una rabbia impotente. Offesa e impotenza sono i due tratti essenziali che connotano l’emozione che Miss Rosa prova rispetto all’oggetto della sua frustrazione che prende forma attraverso la sua voce scarna e cupa e stupefatta nel ritrovarsi ancora dopo quarantatré anni abitata dall’esigenza indomabile di raccontare di nuovo, da capo la storia del suo lutto e – noi speriamo – di quel non-marito a cui non riusciamo a dare un contorno. E’ un dire che sfianca e confonde il senso dell’udito di Quentin, forse figura della fatica e confusione che ci attende come lettori. Se è la sognante polvere che chiude il paragrafo ad uscirne vittoriosa, abbiamo qualche speranza, noi e Quentin, di carpire un qualche significato da quel passato che ci aspettiamo adesso ci verrà offerto dalla voce di Miss Rosa?

Pubblicato in Incipit | Contrassegnato , , | Lascia un commento

L’inizio (e non la fine)

abc-inizioNuovo anno, nuovo inizio. Ottimo momento per ricominciare a parlare di inizi, dopo essermi dedicata – lontano da qui – alle chiusure. Ricomincio rispondendo a chi in questi mesi di vita di CosìComincia mi ha ripetuto, sussurrato – Inizi dei romanzi? Ma no! Perché non parli della fine? Lì c’è la verità di quello che è stato.

Giusta osservazione, che merita tutta la mia attenzione. Quante volte è proprio il finale che fa crollare l’intero edificio fin lì costruito! Che delusione, vissuta quasi come un tradimento – del tempo dedicato, del scommessa accettata, della sfida raccolta, del coinvolgimento emozionale ed esistenziale speso. Vero, vero, senz’altro vero. Sì, ma non posso occuparmi qui di questo. Non posso, per una ragione pratica e una ragione teorica.

La ragione pratica è molto semplice: è ben difficile parlare del finale di un libro senza parlare dell’intero libro. Non c’è l’uno senza l’altro, l’ultimo tassello è significativo proprio perché è stato preparato in un certo modo. In agguato, quindi, il rischio di rovinare la lettura a chi il libro non lo ha già letto. Lungi da me!

La ragione teorica ha a che fare con i miei interessi personali: quello che succede al lettore mentre legge, come la storia prende forma nella sua mente e si fa spazio (se si fa spazio) nelle sue consuetudini culturali, emozionali, analitiche. Le prime impressioni, come il nuovo si legittima o meno nel nostro orizzonte percettivo, mi hanno sempre affascinato. Negli inizi, il lettore non trova solamente i primi passi di una storia con i primi tratti dei suoi personaggi, ma – crucialmente – incontra l’autore, che lì si gioca in maniera assoluta la possibilità di continuare a dire qualcosa al suo lettore, di incentivarlo a collaborare alla costruzione del significato che la storia nasconde attraverso le parole che ha voluto fossero le prime. La soglia appena attraversata parla del nostro essere ospiti, del nostro essere in attesa, del nostro essere pronti per un incontro che sta per avvenire, parla di uno sbilanciamento verso lo sconosciuto e l’altro e la disponibilità ad abitarlo ed ascoltarlo per il tempo necessario. Le prime parole dicono anche di noi, delle nostre resistenze e del nostro fidarci, del nostro dubitare e del nostro lasciare.

Ecco perché continuerò a parlare di inizi – ve lo volevo dire di nuovo, in questo nuovo inizio.

Pubblicato in Soste | Contrassegnato | 2 commenti