Assalonne, Assalonne! (William Faulkner, 1936)

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imgresDa’ un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre—una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero alcove e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento. C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa. (Adelphi, 2001, traduzione di Glauco Cambon)

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From a little after two o’clock until almost sundown of the long still hot weary dead September afternoon they sat in what Miss Coldfield still called the office because her father had called it that—a dim hot airless room with the blinds all closed and fastened for forty-three summers because when she was a girl someone had believed that light and moving air carried heat and that dark was always cooler, and which (as the sun shone fuller and fuller on that side of the house) became latticed with yellow slashes full of dust motes which Quentin thought of as being flecks of the dead old dried paint itself blown inward from the scaling blinds as wind might have blown them. There was a wistaria vine blooming for the second time that summer on a wooden trellis before one window, into which sparrows came now and then in random gusts, making a dry vivid dusty sound before going away: and opposite Quentin, Miss Coldfield  in the eternal balck which she had worn for forty-three years now, whether for sister, father, or nothusband none knew, sitting so bolt upright in the straight hard chair that was so tall for her that her legs hung straight and rigid as if she had iron shinbones and ankles, clear of the floor with that air of impotent and static rage like children’s feet, and talking in that grim haggard amazed voice until at last listening would renege and hearing-sense self confound and the long-dead object of her impotent yet indomitable frustration would appear, as though by outraged recapitulation evoked, quiet inattentive and harmless, out of the biding and dreamy and victorious dust. Absalom, Absalom! 1936] 

 

Una riga e siamo già irretiti da una trafila di aggettivi (senza virgole per giunta); un paragrafo e siamo già persi nei dettagli di un pomeriggio, di una stanza, di una lunga conversazione, di due personaggi che si stagliano netti e al contempo sfuggenti, sullo sfondo di un polveroso e soffocante ufficio buio e senz’aria. Lungo paragrafo ad avviare uno dei capolavori della cosiddetta fase maggiore del grande William Faulkner – Assalonne, Assalonne!  Un titolo impervio, opaco nella suo non immediatamente disponibile riferimento ad un personaggio biblico, titolo assolutamente non illuminato da questo primo paragrafo.

Lasciamoci irretire dunque e accettiamo di perderci in questo mare di parole e di specificazioni. La prima riga dice proprio di un tempo lungo – dalle due fin quasi al tramonto di un pomeriggio di fine estate che potrebbe suggerire metaforicamente un tramonto più vasto – di un incontro tra Quentin e Miss Rosa Coldfield che si consuma senza fretta e senza fretta si misura con quello che è e con quello che è stato. E’ proprio il tempo il primo componente ad emergere da questo incipit – il tempo trascorso, descritto dalla specificazione temporale che apre il romanzo, il tempo passato che ancora incombe sul presente e lo definisce: la stanza si chiama studio perché così la chiamava il padre di Miss Rosa e lo studio è chiuso e inchiavardato per una convinzione espressa quarantatré anni prima. Padre o non meglio specificato qualcuno, l’ombra lunga del passato giunge – prescrittiva – fino a Miss Rosa che l’ha fatta sua e a Quentin, giovane invitato, che la subisce.

Rosa è Miss Rosa Coldfield, Quentin è semplicemente Quentin, ad indicare (e suggerire) due generazioni distanti non solo per l’età, ma per una visione del mondo e delle sue regole di appropriatezza sociale. Ed è proprio su Miss Rosa che si concentra la seconda parte di questo primo inaugurale paragrafo: Miss Rosa è presentata come segnata dall’assenza e dalla perdita. Proprio perché eterno il suo lutto ha perso il senso di un segno circostanziale, la perdita di una sorella o del padre o del marito mancato, ed è diventato simbolo di un modo di intendere la vita nella sua totalità. Come il termine “studio” è rimasto cristallizzato per Miss Rosa, così il sentirsi colpita nei suoi affetti è diventato dominante – il nero della morte colora la sua vita, che, forse, non può più dirsi tale. Il riferimento al lutto per un marito mancato (la parola che Faulkner usa nell’originale è un impegnativo neologismo, nothusband) a fianco di lutti, per così dire, più immediatamente comprensibili, aggiunge un ingrediente di mistero all’atmosfera vagamente gotica, decadente che aleggia in queste prime righe contrastata dal glicine che, incurante, fiorisce per la seconda volta.

L’argomento della conversazione è un offeso ricapitolare che affonda le sue radici in una rabbia impotente. Offesa e impotenza sono i due tratti essenziali che connotano l’emozione che Miss Rosa prova rispetto all’oggetto della sua frustrazione che prende forma attraverso la sua voce scarna e cupa e stupefatta nel ritrovarsi ancora dopo quarantatré anni abitata dall’esigenza indomabile di raccontare di nuovo, da capo la storia del suo lutto e – noi speriamo – di quel non-marito a cui non riusciamo a dare un contorno. E’ un dire che sfianca e confonde il senso dell’udito di Quentin, forse figura della fatica e confusione che ci attende come lettori. Se è la sognante polvere che chiude il paragrafo ad uscirne vittoriosa, abbiamo qualche speranza, noi e Quentin, di carpire un qualche significato da quel passato che ci aspettiamo adesso ci verrà offerto dalla voce di Miss Rosa?

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