Brevi interviste con uomini schifosi (David Foster Wallace, 1999)

DFW - BI“Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale”

Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso.

A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sí, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sí, o invece sí.” (Einaudi, traduzione Ottavio Fatica e Giovanna Granato).

[“A Radically Condensed History of Postindustrial Life”

When they were introduced, he made a witticism, hoping to be liked. She laughed extremely hard, hoping to be lliked. Then each drove home alone, staring straight ahead, with the very same twist to their faces.

The man who’d introduced them didn’t much like either of them, though he acted as if he did, anxious as he was to preserve good relations at all times. One never knew, after all, now did one now did one now did one.]

Così comincia (e finisce) la prima delle ventitré storie che compongono la seconda raccolta di racconti di David Foster Wallace. In apertura, dunque, ci accoglie un pezzo breve, riconducibile al titolo, anche se non si tratta di un’intervista. Qualche traccia di uomini schifosi? Forse schifosi è un aggettivo eccessivo per descrivere i protagonisti di questo sketch – il bozzetto più che schifo, suscita tristezza soprattutto se lo consideriamo un ritratto paradigmatico di come funziona la vita in un’intera epoca, quella post-industriale – cioè la nostra.

Dunque vediamo di addentrarci con calma in questo straordinario condensato (questo l’aggettivo usato nel titolo originale) non solo della storia della vita postindustriale, ma anche di quello che ci aspetta nel resto della raccolta – principio questo che ci guida sempre in queste pagine.

Tre i personaggi, due uomini e una donna, tutti senza nome – una presentazione, qualche convenevole, e poi tutti per la propria strada. Niente di che insomma; eppure la descrizione è micidiale nella sua chirurgica descrizione del tipo di relazioni che caratterizzano la nostra epoca. L’interazione sembra essere governata dalla necessità di presentare una superficie, una maschera per ottenere sull’altro un effetto positivo, foriero di qualcosa, di un futuro possibile, di un secondo incontro e della correlata, conseguente, assenza di autenticità che lascia l’amaro in bocca a tutti – chi presenta l’uomo e la donna che non si conoscevano e l’uomo e la donna stessi.

Tre le azioni – presentare, fare una battuta, ridere. Tutte e tre amplificate, sopra le righe, snaturate da secondi fini – piacere, fare una buona impressione, o quanto meno sperarci – che costano cari. Il costo è esemplificato da uno sguardo fisso, da una smorfia che accomuna le due nuove conoscenze, tristemente consapevoli di aver recitato una parte che non ha intaccato la loro solitudine. “Fare una battuta”, “ridere a crepapelle” due varianti del più esplicito “far finta” di colui che fa da motore a questa micro-scena sociale. Meglio stare sul sicuro – farsi vedere affabili, socievoli, interessati a chi ci sta di fronte – non si sa mai, meglio tenersi le porte aperte, potrebbe venire utile. Ma sono queste le premesse dei buoni rapporti? La chiusa che non chiude, ma che echeggia (potenzialmente all’infinito) un dato di fatto – “non si sa mai” – rimbalza e si rovescia nel suo possibile opposto a sigillare sintatticamente la smorfia dei due nuovi conoscenti, aprendosi ad un interrogativo implicito insoluto e insolubile – come stanno le cose? conviene o non conviene comportarsi così?

Due ulteriori notazioni formali prima di chiudere la lettura lenta e meditata di questo inizio. La scena si staglia prepotente davanti ai nostri occhi nonostante sia essenzialmente ellittica: ci viene detto della battuta, ma non ci è dato sentirla in presa diretta. Non siamo messi nelle condizioni di misurare personalmente quanto la risata a crepapelle sia stata sproporzionata. Il dire assente, il dire indiretto, potrebbe essere, posto così in evidenza all’inizio della raccolta un tema rilevante in sé. La traduzione italiana, sceglie una delle possibili soluzioni per tradurre l’impersonale “one” che chiude questa storia condensata – il tu – e arriva ad esplicitarlo (“sai”) prendendosi una libertà che entra in fertile risonanza con le interviste del titolo: un imprecisato interlocutore viene tirato in ballo e implicitamente coinvolto in una riflessione.

Moltissimo è stato messo sul tavolo – soprattutto l’inquietante suggestione che la nostra epoca si giochi intorno ad un principio dialogico recitato a cavallo di narcisismo, falsità e assenza.

Uomini schifosi, a noi!

 

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Furore (John Steinbeck, 1939)

furore-cover-217x300Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklahoma le ultime piogge furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati. Le lame passarono e ripassarono spianando i solchi piovani. Le ultime piogge fecero rialzare in fretta il mais e sparsero colonie di gramigna e ortiche ai lati delle strade, tanto che terre grigie e le terre rosso-scure cominciarono a sparire sotto una coltre di verde. Nell’ultima parte di maggio il cielo si fece pallido, e scomparvero le nuvole che in primavera avevano indugiato così a lungo con i loro alti pennacchi. Il sole prese a picchiare giorno dopo giorno sul mais in erba, fino a screziare di bruno gli orli di ogni baionetta verde. Le nuvole ricomparvero, e si dileguarono senza tornare più. La gramigna si fece di un verde più scuro per difendersi dal sole, e smise di propagarsi. Il suolo si ricoprì di una crosta dura e sottile, e man mano che il cielo impallidiva. anche il suolo impallidiva, facendosi rosa nelle terre rosse e bianco nelle terre grigie. (Bompiani, traduzione di Sergio Claudio Perroni)

[The Grapes of Wrath 

To the red country and part of the gray country of Oklahoma, the last rains came gently, and they did not cut the scarred earth. The plows crossed and recrossed the rivulet marks. The last rains lifted the corn quickly and scattered weed colonies and grass along the sides of the roads so that the gray country and the dark red country began to disappear under a green cover. In the last part of May the sky grew pale and the clouds that had hung in high puffs for so long in the spring were dissipated. The sun flared down on the growing corn day after day until a line of brown spread along the edge of each green bayonet. The clouds appeared, and went away, and in a while they did not try any more. The weeds grew darker green to protect themselves, and they did not spread any more. The surface of the earth crusted, a thin hard crust, and as the sky became pale, so the earth became pale, pink in the red country and white in the gray country. ]

Una dettagliata descrizione dei colori che si avvicendano sulle terre dell’Oklahoma con il passare dei mesi—dalle ultime piogge di maggio all’estate inoltrata. Così comincia il capolavoro di John Steinbeck, datato 1939. “This must be a good book. […] — slow but sure, piling detail on detail until a picture and an experience emerge. Until the whole throbbing thing emerges” scriveva lo scrittore nel giugno del 1938. La bontà del libro sembra essere collegata al ritmo, lento ma deciso, in cui a dettaglio si aggiunge dettaglio fino a quando prendono forma un’immagine e un’esperienza, fino a quando l’intera materia pulsante emerge. Steinbeck sembra dunque aver immaginato il suo lavoro come il progressivo costruirsi di un affresco che restituisca l’esperienza viva—pulsante appunto—di una vita vissuta.

L’affresco, dettaglio dopo dettaglio, ha fin da subito una forte componente visiva e cromatica: è un paesaggio tragicamente mutevole, questo dell’Oklahoma, che apre la scena di Furore trasformandosi impercettibilmente ma inequivocabilmente in terra arida senz’acqua e quindi senza vita. Le piogge portatrici di vita non lasciano traccia sui terreni arati dall’uomo perchè sono troppo leggere e sono le ultime. Il verde che copre le terre grigie e le terre rosse è effimero ed ha vita breve—il mais si rialza in fretta, ma ancora in erba diventa presto bruno, il colore dell’arsura foriera di morte. Quando le nuvole con i loro pennacchi scompaiono con l’avanzare di maggio se ne va con loro la speranza di un aiuto dal cielo. Significativamente per tre volte viene ripetuto il farsi pallido del cielo e del suolo, segno del dileguarsi della possibilità di vita e di rigenerazione in quei luoghi battuti da un sole impietoso e imperterrito che tutto dissecca e scolora. Anche l’erba cattiva, la gramigna, si rattrappisce nel tentativo di resistere a condizioni climatiche sfavorevoli al propagarsi, cioè al vivere. I colori sono quelli dello sfinimento, dello svuotamento.

Ben lungi dall’essere un giardino accogliente, questa terra americana non sembra poter dare sostegno all’uomo che la abita e la lavora. Il riferimento ai terreni arati non toccati dalla pioggia troppo leggera e alle lame che passano e ripassano nel tentativo vano di far penetrare quel poco di umidità che ha portato la pioggia dice di un uomo che lavora pervicacemente ma che nulla può contro queste condizioni. Il passare e il ripassare dice di una comunità che vive della terra e ne è dipendente, che non può essere indifferente alle condizioni atmosferiche.

Fino a quando la resistenza della gramigna sarà imitabile dall’uomo che abita questa terra ? Fino a quando il pallore della terra non diventerà sudario di morte?

L’affresco è già pulsante dopo un solo paragrafo, l’esperienza che emerge è quella della fatica a contrastare una forza sovrastante le umane forze. E’ questa la radice che provocherà frutti di furore?

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Il re pallido (David Foster Wallace, 2011)

Il re pallidoDi là dalle pianure di flanella, i grafici d’asfalto e gli orizzonti di ruggine sbilenca, e al di là dal fiume tabacco sormontato dagli alberi piangenti monetine di sole che filtrano sull’acqua della foce, nel punto oltre il frangivento, dove i campi incolti rosolano striduli al caldo antimeridiano: sorgo, farinello, leersia, salsapariglia, cipero, stramonio, menta selvatica, soffione, setaria, uva muscadina, verza, verga aurea, edera terrestre, acero da fiore, solano, ambrosia, avena folle, veccia, gramigna, fagiolini spontanei invaginati, tutte teste che annuiscono dolcemente a una brezza mattutina che è la morbida mano di una madre sulla guancia. Uno strale di storni scoccato dalle stoppie del frangivento. Il lucore di rugiada che resta lì a svaporare tutto il giorno. Un girasole, altri quattro, uno chiuso. e lontani cavalli rigidi e immoti come giocattoli. Annuiscono tutti. Suoni elettrici di insetti indaffarati. Sole biondo birra, cielo pallido e volute di cirri così alte da non fare ombra. Insetti indefessamente indaffarati. Quarzo, selce, scisto e croste di condrite ferrosa nel granito. Terra antichissima. Guardatevi intorno. L’orizzonte tremola, informe. Siamo tutti fratelli. (Einaudi, 2013, traduzione di Giovanna Granato).

[Past the flannel plains and blacktop graphs and skylines of canted rust, and past the tobacco-brown river overhung with weeping trees and coins of sunlight through them on the water downriver, to the place beyond the windbreak, where untilled fields simmer shrilly in the A.M. heat: shattercane, lamb’s-quarter, cutgrass, sawbrier, nutgrass, jimsonweed, wild mint, dandelion, foxtail, muscadine, spine-cabbage, goldenrod, creeping charlie, butter-print, nightshade, ragweed, wild oat, vetch, butcher grass, invaginate volunteers beans, all heads gently nodding in a morning breeze like a mother’s soft hand on your cheek. An arrow of starlings fired from the windbreak’s thatch. The glitter of dew that stays where it is and steams all day. A sunflower, four more, one bowed, and horses in the distance standing rigid and still as toys. All nodding. Electric sounds of insects at their business. Ale-colored sunshine and pale sky and whorls of cirrus so high they cast no shadow. Insects all business all the time. Quartz and chert and schist and chondrite iron scabs in granite. Very old land. Look around you. The horizon trembling, shapeless. We are all of us brothers. (2011)]

“Di là”, “al di là”: il romanzo che David Foster Wallace ha lasciato incompiuto quando si è tolto la vita il 12 settembre del 2008, si apre con uno sguardo che si spinge oltre, al di là di quello che l’occhio immediatamente vede, a cercare e a cogliere altro, il dettaglio della natura in tutta la sua eterogenea ricchezza di specie e varietà. Il caldo antemeridiano sottolineato dalla flanella, dall’asfalto, dalla ruggine, dal colore tabacco del fiume e amplificato dai campi incolti che rosolano striduli probabilmente del verso delle cicale sembra stemperarsi e ammorbidirsi “nel punto oltre il frangivento” dove un lungo elenco di piante annuiscono senza eccezione alla carezza materna della brezza mattutina.

Uno sguardo umano, incarnato (cioè non olimpico e onniscente) coglie mano a mano quello c’è – un girasole, altri quattro – vede e nomina ogni cosa con il suo nome, ogni cosa diversa e distinta abbracciata da un catalogo alla Walt Whitman, a tratti antropomorfizzato dall’occhio stesso che osserva  (le teste delle varie piante che annuiscono, la brezza che è una morbida mano di madre). Il catalogo ci colpisce in tutta la sua semplice concretezza per l’assenza dei verbi – dice dell’essere non dell’agire. La natura è infinita nel suo manifestarsi; la presenza umana suggerita nel riferimento, anche metaforico, ai suoi prodotti – la flanella, la ruggine, la birra, l’asfalto, le monetine, il frangivento – sembra rimanere periferica, limitata appunto al ruolo di occhio che vede e articola quello che vede in progressivi affinamenti (“Suoni elettrici di insetti indaffarati” “Insetti indefessamente indaffarati”). La celebrazione dell’esistere di questa terra antichissima diventa esortazione: guardatevi intorno: non vi lasciate sfuggire questa ricchezza ordinaria del vostro quotidiano, del nostro quotidiano. La sorprendente chiusa di questo primo paragrafo, da molti considerato un poema in prosa, “siamo tutti fratelli”, forse va interpretata proprio in questa direzione: aprire gli occhi a quello che circonda tutti (con le necessarie varianti geografiche naturalmente) per sentirci tutti accomunati dalla stessa umanità. Forse. Inutile dire che è ben difficile capire la direzione che prenderà questo ultimo libro di David Foster Wallace a partire da questo incipit così lirico.

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